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22 Maggio 2025 13:40

Decine di barelle in fila, pazienti parcheggiati per giorni: il pronto soccorso di Taranto come un ospedale da campo. Ma il disastro della sanità non fa più notizia

Questa è una storia personale. La testimonianza di un cittadino alle prese con un ospedale e con la sanità disastrata. Vorrei che qualcuno provasse vergogna. So benissimo che non accadrà. Perché in questo Paese gli unici colpevoli sono gli ammalati.
di Tonio Attino

Decine di lettighe in fila. I pazienti allineati. Hanno aghi al braccio. Flebo. Mascherine per l’ossigeno. Tra le barelle non c’è il minimo spazio. Sono addossate le une alle altre. Devono entrarcene il più possibile. Più lettighe, più pazienti. Mi metto a contarle. Ventidue. Ma questo è soltanto uno dei due stanzoni in cui vengono accompagnati gli ammalati ricoverati d’urgenza. I medici sono al centro con le loro postazioni. Sembra di essere in un ospedale da campo, invece è un pronto soccorso.

“Quel pronto soccorso è un girone infernale” mi dice un amico medico al telefono dopo avere saputo che mia madre, 88 anni, ci è finita dentro. Gli parlo dalla sala d’attesa, fuori, cioè all’aperto. Perché la sala d’attesa del pronto soccorso dell’Ospedale Santissima Annunziata, il più grande ospedale della provincia di Taranto, quattrocento posti letto, è all’aperto. Una tettoia può ripararti dalla pioggia, non dal freddo. Decine di persone imbacuccate attendono di sapere qualcosa dei loro congiunti. Possono passare ore: tre, cinque, otto. Nessuno lo sa. Neanch’io.

Trasportata da una ambulanza del 118, mia madre è entrata al pronto soccorso alle nove del mattino. Ha difficoltà respiratorie, codice rosso. È un caso grave, dovrebbe avere la precedenza, sempre che non arrivi un caso ancora più rosso. Di solito, arriva. Nel pomeriggio sta ancora sulla lettiga in attesa di “essere valutata”. Nel pronto soccorso ci resta quattro giorni. Quattro giorni. Un tempo interminabile. Lasciata su una lettiga, con la flebo al braccio e nel naso le cannule dell’ossigeno. Qui un paziente dovrebbe restarci il tempo necessario per gli interventi di urgenza e poi essere dimesso o essere destinato a un reparto per il ricovero. “Ma non ci sono posti disponibili” dicono i medici. Così una lettiga si aggiunge a un’altra lettiga e a un’altra ancora.

“Aiutami” dice mia madre guardandomi. Solo questo capisco quando, entrato nello stanzone del pronto soccorso, sono in grado di avvicinarmi a lei a sufficienza per ascoltarne i sussurri. Le dico di stare tranquilla, torneremo presto a casa. Spero. Mento. Le lettighe affiancate mi impediscono di avvicinarmi di più e perfino di farle una carezza. Che posto è questo? Sicuramente un posto maledetto in cui hanno tutti ragione. Tutti, tranne i pazienti. Sono colpevoli di essere andati in ospedale.

I vigilanti hanno ragione. Ti sbarrano la strada quando cerchi di chiedere informazioni. “Dove va?”. “Allo sportello, devo chiedere all’infermiera notizie di mia madre”. “Non si può, le linee non vanno”. “Quali linee?”. “Le linee internet”.Non ho bisogno di mandare una mail. Posso chiedere le informazioni di persona, l’infermiera è lì”. I vigilanti sono talvolta gentili. Spessissimo sgarbati. A volte danno risposte inverosimili. Ma hanno ragione, no? Mai sentito parlare di aggressioni ai medici? Certo, certo. Anche se io non volevo aggredire nessuno. Per avere informazioni bisogna insistere. “Attenda fuori, la chiamiamo noi” dice l’infermiera. Niente invece, non succede niente. Attendi in sala di attesa, all’aperto. Allora bisogna chiedere all’amico, all’amico dell’amico. Mi vergogno.

I medici hanno ragione, ovviamente. Perché i pazienti sono troppi, i posti letto troppo pochi. Al quarto giorno – dopo richieste vane, lo sbarramento dei vigilanti, l’attesa nella sala d’attesa esterna, un rapido ingresso in reparto per vedere mia madre sempre sulla lettiga, sempre nelle stesse condizioni, sempre implorante – un medico mi dice che le sue condizioni sono in fondo buone. “Dal punto di vista clinico, oltre che avere una lieve leucocitosi e un po’ di pcr, segno che ha avuto probabilmente una bronchitella, va bene. Il torace è negativo per addensamenti polmonari, cioè non ha polmoniti, gli esami sono accettabili, è ben idratata, dal punto di vista clinico non è in brutte condizioni. Certo è una paziente allettata e con le sue problematiche croniche. Anche l’esame emogas alla respirazione in aria-ambiente risulta accettabile, ha una saturazione al 96 per cento. Urgenze dal punto di vista sanitario non ce ne sono. Le era stato proposto un hospice perché non avendo posti per acuti era come metterla in una Rsa, poi eventualmente sarebbe stata trasferita in lungodegenza. Forse il nome hospice può fare pensare…”.

Pensare? L’hospice è per definizione la struttura per pazienti terminali in cui si somministrano solo cure palliative. “Se mia madre deve andarsene stando in un hospice, preferisco stia a casa” dico. E il medico: “In una sanità ideale questi pazienti andrebbero ricoverati nelle case della salute dove i medici di medicina generale possano gestirli, perché non hanno bisogno del ricovero intensivo ma di essere supportati. Però nella situazione catastrofica che abbiamo…”. Catastrofica. Questa è la parola da sottolineare. La pronuncia lui, il medico. “Dipende dal sistema – afferma – dipende da chi gestisce la sanità. Io sono obbligato a fare quello che faccio, sono in un campo di battaglia. Se ho cento feriti, devo salvare il salvabile. Ma non condivido questa situazione. Il reparto di medicina non mi risponde neanche al telefono, non ci sono letti. Avevamo proposto l’hospice perché, non essendoci posti…”.

Naturalmente hanno ragione i politici. Non ci sono soldi, non ci sono medici, non ci sono infermieri, i posti letto scarseggiano. L’Italia in vent’anni anni ha perduto 125 ospedali (l’11 per cento) e ha soppresso 83mila posti letto. La Puglia ha perduto una trentina di ospedali e duemila posti letto. Insomma, ora il vero problema sono i pazienti. Sono troppi e si rivolgono al pronto soccorso anche per minuzie risolvibili altrove. Per esempio rivolgendosi ai medici di base. Ma anche loro sono pochi. in Puglia ne mancano 267. I numeri spiegano e possono giustificare chiunque desideri una giustificazione.

Forse il problema è che la popolazione è sempre più anziana, i giovani scappano via dal Sud, in Puglia quasi 135mila in dieci anni. Restano i vecchi un po’ malaticci, spessissimo affetti da problemi polmonari perché – lo sanno tutti, fuorché una decina di governi che si sono succeduti negli ultimi anni – a Taranto c’è anche la fabbrica dell’acciaio, l’ex Ilva di cui si parla tanto ma non abbastanza, e non fa bene alla salute. E’ un gigante come non ce ne sono in giro, grande come una città. Ma come si risolve? Grande fabbrica, grande ospedale. L’ospedale San Cataldo, in costruzione dal 2020, dovrebbe essere pronto il prossimo anno: quattro livelli, 260mila metri quadrati, 715 posti letto, 70 ambulatori, 19 sale operatorie, costo stimato 312,5 milioni di euro. Ancora numeri.

Neanche i giornali parlano più di sanità e di ospedali. Parlano tutt’al più di questo, di numeri, non di storie, di disagi, disservizi. La Regione ha deciso di istituire altri 1577 posti letto, ad aprile ha stanziato 81 milioni per coprire il disavanzo del settore sanitario, ha deliberato di assumere 2300 persone, medici, infermieri, personale amministrativo. Intanto va bene così: ci si arrangia con gli ospedali da campo chiamati pronto soccorso, decine di pazienti allineati sulle barelle.

Al quarto giorno di lettiga, mia madre viene trasferita nel reparto di Medicina. E’ un vero “colpo di mano”, probabilmente frutto delle mie insistenze, delle mie domande senza risposta. I medici del pronto soccorso portano mia madre in lettiga al piano di sopra, ma un posto letto non c’è. I medici di Medicina non apprezzano la “forzatura” dei colleghi del pronto soccorso e me lo fanno sapere. Mia madre resta la notte in barella, nella medicheria del reparto, poi viene ammessa finalmente in una stanza. Passerà alcuni giorni lì. L’ultimo giorno prima del trasferimento in lungodegenza, le tolgono l’ossigeno. “La saturazione e buona”. Viene trasferita da Taranto a Grottaglie, dove c’è il vecchio Ospedale San Marco, anch’esso vittima dei tagli e dei riordini ospedalieri. Quando la rivedo, poche ore dopo, la ritrovo con l’ossigeno. La saturazione non va. Resterà per giorni con l’ossigeno.

Il 28 aprile, meno di un mese dopo il ricovero al pronto soccorso avvenuto sabato 5, se n’è andata. All’ora di visita, quando riesco a vederla, respira a fatica, nonostante l’ossigeno. Chiamo un infermiere e chiedo di un medico. “La dottoressa è occupata per un ricovero”. “La chiami, mia madre respira male”. “L’abbiamo vista poco fa, va tutto bene”.Per favore la chiami. Mia madre sta male”. Dopo un po’ arriva, con due infermieri, entra nella stanza in cui mia madre è ricoverata, le porte si chiudono. Dopo qualche minuto, quando si riaprono, è finita. La dottoressa mi comunica quello che so già e ho capito prima di tutti loro. Prova a spiegarmi qualcosa che non voglio sentire. La fermo sollevando la mano, le dico “no”. Non mi interessa ascoltare spiegazioni inutili, mi basta la lezione degli ultimi giorni.

In un mondo normale dovrei chiedere scusa a mia madre, per averla fatta sottoporre a questa straziante forma di tortura. Invece no. In questo mondo che ci ha abituati all’ingiustizia rendendocela ordinaria, devo chiedere scusa al sistema, a una sanità a pezzi sulla quale hanno tutti ragione, tranne i pazienti. Ho contribuito ad intasare il pronto soccorso e a occupare una lettiga e un prezioso posto letto in due diversi reparti. Ho disturbato medici, vigilanti, infermieri, politici, il “sistema” che si occupa (malissimo, benissimo? Fate voi) della nostra salute.

*per gentile concessione tratto dal blog del collega Tonio Attino

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