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18 Giugno 2025 02:43

Pd, prigioniero della sua stessa radicalizzazione

L’errore di cui appare prigioniero il gruppo di testa del Pd sta nel rincorrere quasi ogni giorno la deriva della contrapposizione, contando che una volta o l’altra porterà in dote la fortuna che è mancata fin qui.
di Marco Follini

“Così andiamo a sbattere”. Ci voleva il garbo di un antico e rigoroso professionista della politica (Pierluigi Castagnetti) per segnalare alla Schlein i rischi della deriva a cui sta andando incontro il Pd. E cioè quel destino minoritario, quasi testimoniale, che induce a consolarsi di qualche nobile battaglia intrapresa qua e là ma trascura quasi del tutto il fondamentale compito di convincere gli indecisi, catturare consensi a metà campo, spiazzare l’avversario alle volte perfino facendo mostra di andargli incontro. O almeno facendo un tentativo di andare incontro alla parte meno fidelizzata dei suoi elettori.

Nella sua ultima versione il Partito democratico appare prigioniero della sua stessa radicalizzazione. Si spinge a sinistra per non lasciare troppo spazio a Conte e ad Avs. Insegue la protesta dovunque si trovi, nelle piazze piuttosto che nei referendum. Si dedica a un continuo, polemico, inconcludente corpo a corpo con la Meloni. E soprattutto riduce al minimo la discussione interna, quasi che l’interrogarsi su se stessi a lungo andare finisca per seminare troppe incertezze sulle proprie ragioni e sul proprio destino.

C’è una sorta di attesa della mitica ora x, l’attimo in cui si sfalderà l’ingannevole incantesimo del governo. Confidando che le praterie dell’opposizione a quel punto saranno abbastanza vaste, e abbastanza floride, da dar vita a una nuova, scintillante stagione politica di sinistra. In questo contesto il caro, vecchio centro, ovviamente, per il Pd non può quasi esistere. Esso si incarna in figure che il gruppo dirigente del Pd non ama più di tanto (e di cui, anzi, diffida apertamente). Offre ricordi che non dicono quasi nulla alle generazioni e agli ambienti cui si rivolge Elly Schlein.

E può perfino risultare stridente con un clima che deve essere piuttosto polemico, baldanzoso, fiammeggiante. Al fondo, convinto di essere, ancora una volta, “migliore” di tutti gli altri. Così, mentre la governante in capo “assume” l’ex segretario della Cisl, la leader dell’opposizione fa finta di compiacersi di aver quasi vinto un referendum che ha largamente perduto. Ora, non si tratta certo di andare a cercare ancora una volta il mitico punto C della politica italiana (c come centro, ovviamente). Esso forse non esiste più e di certo non detta più l’agenda.

Ma esiste in compenso una dispersione di consensi che trae origine proprio da quell’elettorato intermedio, non ideologico, privo di spirito troppo militante, lontano dal settarismo. E alle volte quasi spaventato dalla crudezza di certe forzature ideologiche e di certe battaglie politiche. Quell’elettorato danza lungo le linee di confine. Non ha rappresentanza, e dunque se la va a cercare. E constata, giorno dopo giorno, che il Pd versione Schlein non sente un briciolo di curiosità, tanto meno di empatia, nei suoi riguardi. Il Pd infatti non sembra neppure porsi il problema di ridisegnare i suoi confini e tantomeno l’idea di se stesso.

Non guarda neppure per un attimo -fosse anche solo un attimo- nella direzione di chi protesta stando a casa. E invece appare attratto oltremisura da chi lo fa non vedendo l’ora di andare, o di tornare, in piazza. Così, il principale partito di opposizione finisce per restare prigioniero di numeri angusti, alleati ingombranti e prospettive opache. In realtà quegli elettori dispersi a cui il Pd non sembra quasi più interessato non vorrebbero affatto tornare al passato, ma più semplicemente farsi tenere almeno un po’ da conto. E magari trovare un qualche riverbero dei loro pensieri e delle loro inquietudini in un confronto interno che viene fatto somigliare più a una logica disciplinare che non a un limpido (e costruttivo) confronto di idee.

L’errore di cui appare prigioniero il gruppo di testa del Pd sta nel rincorrere quasi ogni giorno la deriva della contrapposizione, contando che una volta o l’altra porterà in dote la fortuna che è mancata fin qui. E invece è proprio quello il terreno su cui Meloni ha costruito le proprie fortune e a cui conta di affidare le proprie sorti future. Poiché quel gioco -che una volta si sarebbe chiamato alla voce “radicalizzazione della lotta politica”– è il naturale terreno di caccia della destra. Che nel parapiglia ritrova se stessa e nella tessitura invece più facilmente si può perdere. Proprio perché l’arte della tessitura non sta nelle sue corde. Agli albori della nostra seconda repubblica Cossiga coniò una formula che somigliava a uno scioglilingua: la sinistra batte la destra, il centro batte la sinistra. Era il suo messaggio rivolto agli ultimi democristiani per indurli a tentare una nuova avventura centrista. Ora invece sarebbe il caso di prendere atto che quell’aforisma andrebbe capovolto. Infatti la destra da sola batte una sinistra che gioca da sola. Mentre una sinistra che si allarga verso il centro può sperare forse -forse- di riaprire la contesa. L’alternativa, per l’appunto, è quella di “andare a sbattere”

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