La sentenza è stata emessa oggi dal giudice monocratico della IV sezione penale del Tribunale di Roma che ha condannato a 10 mesi, pena sospesa, il giornalista televisivo RAI Enrico Varriale, imputato per stalking e lesioni nei confronti della sua ex. Il giudice monocratico ha disposto per Varriale, una volta che la sentenza diventerà definitiva, un percorso che prevede la partecipazione a un percorso di recupero presso enti o associazioni, rivolti a ‘uomini maltrattanti’. Il pm oggi in aula aveva chiesto una condanna a 2 anni. “In molte storie sentimentali capita che una delle due parti voglia terminare la storia e che l’altra parte invece non si rassegni, mettendo in atto comportamenti esasperanti ed è ciò che abbiamo visto in questa vicenda” ha sottolineato il pm in aula sollecitando la richiesta di condanna.
“La giustizia continua a stupirmi. Non avrei mai creduto che si potesse condannare per stalking una persona la cui unica colpa è avere mandato decine di messaggi alla ex compagna, al fine di incontrarla per chiarire e chiederle scusa. Leggerò le motivazioni e sicuramente proporrò appello” commenta l’avvocato Fabio Lattanzi, difensore di Varriale.

A commentare a caldo l’esito del processo è stata Teresa Manente, avvocata di parte civile e responsabile dell’ufficio legale di Differenza Donna: “Esprimo soddisfazione per la sentenza, che ha riconosciuto la responsabilità penale dell’imputato per il reato di atti persecutori e per l’aggressione fisica ai danni della mia assistita, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia, al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese processuali”. Secondo quanto riportato dalla stessa legale, il Tribunale ha accertato che Varriale avrebbe messo in atto condotte reiterate che hanno violato il diritto alla libertà e alla sicurezza della donna, ignorando ripetutamente la volontà di quest’ultima di interrompere ogni rapporto
“Questo processo è stato anche una denuncia pubblica contro la normalizzazione della violenza nelle relazioni intime”, ha dichiarato l’avvocata Manente. “Nessun ‘dispiacere’, nessun preteso ‘amore’ può giustificare una relazione che si fonda sul controllo, sull’intimidazione, sull’umiliazione e sulla violenza. Le parole usate dall’imputato” – pesanti ingiurie di connotazione sessuale – “e le sue azioni, pedinamenti, minacce, aggressioni, parlano da sole e descrivono un modello di possesso che non ha nulla a che vedere con l’affettività”. La vicenda ha coinvolto anche strutture di supporto per le vittime, come i centri antiviolenza, ai quali la donna si è rivolta per affrontare le conseguenze psicologiche subite.
“La nostra assistita ha dovuto cambiare radicalmente le proprie abitudini di vita“, si legge in una nota di Differenza Donna. “Si è rivolta a un centro antiviolenza per ricevere supporto psicologico, ha vissuto nel terrore quotidiano di essere seguita, aggredita, annientata. Grazie al coraggio della donna e all’efficacia dell’azione processuale, oggi possiamo dire che giustizia è stata fatta”.