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28 Marzo 2024 13:36
28 Marzo 2024 13:36

Tim Cook ( n .1 di Apple) : “i social media vengono usati per manipolare l’opinione pubblica”

Intervistato dall’emittente tv americana NBC, l’amministratore delegato di Apple non li nomina esplicitamente ma critica Facebook e Twitter e spiega come siano diventati negli anni casse di risonanza consentendo la diffusione di contenuti dannosi per la democrazia e la civile convivenza. Un giornale russo ha ricostruito l’attività di un’azienda di San Pietroburgo che avrebbe influenzato le elezioni americane sfruttando i social network

ROMA –  L’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, ormai da tempo mostra di avere a cuore il tema del ruolo della tecnologia nel progresso della civiltà. Infatti alcuni pochi giorni fa, in un incontro con gli studenti italiani a Firenze, aveva toccato temi di ampio respiro come l’immigrazione, l’odio in Rete e la minaccia posta dalle fake news nei confronti del dibattito politico interno agli Stati Uniti e non solo. Proprio in queste ore il CEO, in un’intervista alla NBC, è tornato sull’argomento manifestando in particolare tutta la sua preoccupazione per il tema delle bufale alimentate e diffuse ad arte a mezzo social.

La natura dei social network purtroppo non ostacola questa attività: nate come piattaforme di condivisione, si sono trasformate nel corso degli anni  in luoghi di svago e soprattutto di sfogo, dove è diventato sin troppo facile diffondere e far risuonare contenuti ad alto tasso di coinvolgimento emotivo come “fake news” e discorsi di incitamento all’odio. E’ compito quindi dunque delle aziende che gestiscono i socialnetwork, intraprendere adesso un profondo percorso di rinnovamento, una modifica al proprio DNA costitutivo che permetta loro di sopravvivere pur schermando contenuti così dannosi per le comunità. Secondo Tim Cook, queste aziende “a partire dalle ultime elezioni hanno già imparato molto a riguardo” e non sono tutte da biasimare: pilotate  da “modelli di business, valori e obbiettivi differenti“, non vanno tutte accomunate; il loro potenziale di fare sempre meglio per risolvere una situazione così complessa dipenderà in larga parte da questi fattori.

Ecco come funzionava la fabbrica dei “troll”  del Russiagate

Un giornale russo ha ricostruito l’attività di un’azienda di San Pietroburgo che avrebbe influenzato le elezioni americane sfruttando i social network.  Tutto inizia con degli hot dog. Nella primavera del 2015 – un anno e mezzo prima delle elezioni americane – una delle “fabbriche di troll” russe fece un esperimento. Volevano capire se riuscivano ad attrarre delle persone a un evento inesistente a New York, senza muoversi da San Pietroburgo. “Chi si presenterà avrà in omaggio un hot dog”, scrissero sul socialnetwork Facebook.

 In tanti credettero all’annuncio ma rimasero delusi nel constatare che dei panini non c’è nessuna traccia. Non sapendo di essere osservati. Per la “fabbrica dei troll”, la scena venne tenuta d’occhio grazie a una webcam, e fu la la prova che si potevano influenzare le persone a distanza, semplicemente condividendo delle notizie false.

Lo svelò il giornale russo Rbc che in un’inchiesta molto dettagliata ricostruè come è nata l’ Ira (Internet research agency), una delle principali “fabbriche di troll” russe a San Pietroburgo, e il modo in cui – sempre secondo il giornale – si è poi mossa per influenzare le presidenziali americane. Per riuscirci avrebbe speso più di due milioni di dollari, stipendiando centinaia di impiegati che durante la campagna elettorale avevano il compito di alimentare la disinformazione sui social media. Lo scopo principale era di diffondere l’odio razziale nel contesto di campagne come Black lives matter”. Ma potevano anche sposare altre cause, come quella per la diffusione delle armi.

 Il quotidiano Rbc ha stilato un elenco di quasi 120 comunità e gruppi tematici di questo tipo diffusi in Facebook, Instagram e Twitter, attivi fino all’agosto 2017 e collegati alla “fabbrica dei troll”. Il giornale ha chiesto la consulenza di alcuni esperti di linguistica, fra cui Ronald Meyer della Columbia University. Hanno provato che in una buona parte dei post gli errori nell’inglese erano quelli tipici dei madrelingua russi. Secondo le stime di Rbc, la fabbrica è stata in grado di condividere fra i 20 e 30 milioni di post e altri contenuti nel solo settembre 2016. Arrivando ai 70 milioni nell’ottobre.

 Per di più, secondo Rbc alcune delle storie condivise dalla “fabbrica” sarebbero state costruite e rese così credibili al punto tale da venire poi ripubblicate o citate dai media internazionali come Bbc, Usa Today e Al Jazeera. Secondo fonti interne alla “fabbrica”, in questo periodo sarebbero stati spesi mensilmente quasi 200.000 rubli (circa 3.000 euro al mese)  per tecnologie informatiche, fra cui server proxy, nuovi indirizzi ip e sim telefoniche.

Nonostante le dichiarazioni poco credibili di Facebook, molte sue pagine collegate a Twitter, utilizzate dai russi sono ancora attive (fonte: John Elswick – Associated Press)

 Come ha scritto Thing Progress, le campagne internet non supportavano direttamente Donald Trump, ma avrebbero poi di fatto favorito la sua campagna elettorale alimentando tematiche sociali controverse. Questo scopo poteva però non essere chiaro ai dipendenti della “fabbrica dei troll”, organizzati come in una qualsiasi azienda.  Il quotidiani Rbc ha spiegato come gli impiegati rispettassero dei turni, con giorni di pausa e salari differenziati sulla base delle competenze. Un troll di primo livello poteva guadagnare 55.000 rubli ogni mese (quasi 810 euro), ma erano previsti dei premi in caso di reazioni forti alle storie condivise. Secondo le stime, in questo periodo avrebbero lavorato per la “fabbrica” fino a 250 persone.

 Ma è difficile però accertare il numero degli “attivisti” che hanno sposato le campagne architettate a San Pietroburgo, senza neppure sospettarne l’origine russa. Convincerli non sarebbe stato difficile. Il sistema d’influenza non era poi molto diverso da quel primo rudimentale esperimento che aveva portato decine di persone in una piazza di New York, in cerca di un hot dog gratuito.

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