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19 Aprile 2024 22:49
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Che fine ha fatto la Guardia Costiera?

Con Mare Nostrum tutti i soccorsi ai migranti affidati alla Marina militare. Mentre per legge la missione spetta al Corpo. Che potrebbe realizzarla con costi di gran lunga inferiore. Lo spiega uno studio della Fondazione Icsa

di Gianluca Di Feo

Entro pochi giorni terminerà l’operazione “Mare Nostrum“, la più grande azione umanitaria mai realizzata nel Mediterraneo, lasciando un buco nero nel soccorso all’assistenza dei migranti. La missione europea Triton non la sostituirà: i compiti della flottiglia Ue si fermeranno alle acque territoriali. E governi chiave come quello britannico hanno già detto di essere contrari persino a operazioni del genere, perché incentivano l’esodo verso Nord delle popolazioni in fuga da guerre, dittature e fame.

In un anno Mare Nostrum ha fatto arrivare sul territorio dell’Unione quasi 150 mila persone, che in parte hanno poi lasciato il nostro Paese grazie alla mancanza di identificazione al momento dello sbarco. Un’ondata sfruttata dai partiti della destra xenofoba per aumentare il consenso interno, soprattutto in Gran Bretagna e Francia. La realtà però lascia poco spazio alle manovre politiche: le traversate proseguiranno. Perché Siria, Iraq, Libia e Sudan sono devastate dalla guerra civile; perché in Palestina le ferite dell’ultimo scontro con Israele non sono state sanate; perché gli eritrei vogliono fuggire dal regime e dalla depressione economica; perché nei Paesi dell’Africa occidentale alla cronica arretratezza economica adesso si è aggiunto lo spettro di ebola.

Le scelte europee lasciano il problema interamente nelle mani del nostro governo. Ed ecco che uno studio della Fondazione Icsa, il più autorevole think tank italiano sulle questioni strategiche, presenta una soluzione a dir poco ovvia: affidare la gestione a chi per legge ne è incaricato, ossia la Capitaneria di Porto con la sua Guardia Costiera.

Le regole sono chiare: spetta alla Capitaneria coordinare i soccorsi. Ma questa istituzione è rimasta una cenerentola, poco nota ai cittadini nonostante fiction tv e altre manifestazioni promozionali. Stando allo studio, però, dispone di uomini, mezzi e strutture per fronteggiare le emergenze, anche quelle più difficili. Un anno esatto fa il governo di Enrico Letta l’ha esautorata dai suoi compiti, affidando il controllo del Canale di Sicilia alla Marina Militare. Che ha realizzato un’impresa titanica. La lettura dello studio della Fondazione Icsa lascia una riflessione amara sull’abitudine del nostro Paese a gestire tutto secondo la logica dell’emergenza. Gli sbarchi in Sicilia avvengono ormai da decenni, senza che però sia stata predisposta una rete organica di monitoraggio, assistenza e accoglienza. A ogni ondata, come due anni fa in occasione delle primavere arabe, si riparte da zero, spesso nel caos.

In teoria, a disposizione ci sono mezzi abbondanti: oltre alla Capitaneria e la Marina, la flotta navale e aerea della Guardia di Finanza, gli elicotteri di Aeronautica, Carabinieri e Polizia. In un decennio non c’è stata mai la costituzione di una struttura integrata per l’intervento in mare, né per alloggiare i migranti e garantire i diritti dei rifugiati politici.  

Uno dei primi effetti dell’improvvisazione, sottolineato dal dossier della Fondazione Icsa, è il costo sproporzionato. Non c’è “economia di gestione”. Il dispositivo della Marina si è dimostrato potente, ma ha una spesa di gestione alta, tipica di tutti gli strumenti militari, pensati per agire in condizioni estreme. Le navi che vanno a intercettare le carrette del mare hanno radar, missili, cannoni, motori ad alte prestazioni ed equipaggi numerosi. Lo stesso accade per gli elicotteri, con apparati elettronici e di difesa, o per i vetusti aerei a lungo raggio Atlantic. Fino al paradosso dei carissimi sottomarini d’ultima generazione, pagati poco meno di mezzo miliardo l’uno, mandati a scoprire barconi e inseguire gli scafisti.

Le dotazioni della Guardia Costiera invece sono “civili”: hanno motori meno “assetati” e soltanto le strumentazioni che servono per le missioni di ricerca e soccorso in mare, senza bisogno di personale abbondante. In particolare i pattugliatori d’altura “classe 900” possono accogliere fino a 600 profughi con una spesa di gran lunga inferiore alle fregate o alle corvette militari. Identico discorso per gli elicotteri e gli aerei, derivati da modelli commerciali.

Di sicuro, però, oggi i ranghi della Capitaneria non bastano per fronteggiare la crisi umanitaria. Il rapporto prende in considerazione l’ausilio che può venire dal coordinamento con la flotta della Guardia di Finanza. E la necessità di ricorrere ad altri apparati. Anzitutto i satelliti. L’Italia ha una costellazione di spie orbitanti, chiamata Cosmo Skymed, che è costata miliardi di euro ma finora non è stata usata per sorvegliare flussi di migranti e barconi.

Un altro incentivo low cost può venire dai droni, che restano in volo per ore pattugliando ampi spazi di mare con una spesa ridotta: strumenti che possono anche venire affittati. Scrive il rapporto: «Sarebbe forse ora che la Pubblica Amministrazione iniziasse ad orientarsi verso forme di affidamento esterno, già molto diffuse in altri paesi, certamente più efficaci e meno dispendiose rispetto a gestioni “in house” oramai in grande sofferenza». Manca poi una “centrale di comando navigante”, che possa fare da ospedale e centro di polizia. «In proposito, esperti del settore ci hanno dichiarato che l’eventuale carenza sarebbe facilmente ovviabile con l’affitto di una sola nave commerciale a costi relativamente bassi: un milione di euro al mese circa, che sono ben altra cosa rispetto ai costi di Mare Nostrum».

I fondi per questi interventi vanno chiesti all’Europa. Il ministero dell’Interno tra il 2006 e il 2007 ha ricevuto 211 milioni per il controllo delle frontiere, finanziamenti usati però soprattutto per acquistare mezzi che non vengono impiegati nel controllo del Canale di Sicilia, come gli elicotteri Agusta Aw 139 della Polizia.

Nei prossimi sette anni il governo di Roma dovrebbe far valere il peso di quello che stiamo facendo, alla luce di un fatto chiaro: il respingimento in mare è vietato dalle leggi internazionali, soccorrere i migranti è obbligatorio. Invece Bruxelles in soli due anni ha assegnato alla Grecia ben 230 milioni alla scopo di tenere i migranti lontani dalle coste, con soli 20 milioni per le operazioni di accoglienza.

Una cifra superiore a quella destinata all’Italia. Conclude il dossier: «Fintanto che l’Europa non comprenderà che il problema dell’immigrazione deve essere condiviso tra i vari Stati, attraverso l’adozione di una politica comune volta al soccorso, all’accoglienza e all’assistenza prima che al respingimento, le conseguenze negative di questo fenomeno non faranno che peggiorare».

* articolo pubblicato dal settimanale L’ESPRESSO il 31 ottobre 2014

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