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29 Marzo 2024 06:34
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L’emergenza perenne Ilva di nuovo di fronte alla Corte costituzionale

Gli istituti speciali introdotti per l’Ilva ancora di fronte alla Corte costituzionale: quanto a lungo può durare un’emergenza che sospende la giurisdizione?

di Giuseppe Battarino*

L’articolata ordinanza con cui il giudice per le indagini preliminari di Taranto ha rimesso alla Corte costituzionale la valutazione di legittimità di istituti speciali che incidono sulla giurisdizione penale, pone sul tappeto la domanda: quanto a lungo può ragionevolmente durare un’”emergenza” che sospende la giurisdizione?

Il punto di svolta nella storia recente delle vicende giudiziarie che riguardano l’impianto industriale di Taranto è costituito dal decreto di sequestro preventivo 25 luglio 2012 del giudice per le indagini preliminari . Il provvedimento giurisdizionale interviene nell’ambito di una complessa vicenda in cui sono centrali i temi della sicurezza sul lavoro, dell’impatto ambientale degli impianti, della bonifica (l’Ilva è situata all’interno di un SIN-sito di interesse nazionale) , di prosecuzione della produzione e salvaguardia, per quanto possibile, dell’occupazione. Si sono dunque, nel corso del tempo, sviluppate le vicende parallele di indagini e giudizi penali; interventi della Corte costituzionale e, di recente, della Cedu,  e – irrisolto − il tangram del rapporto tra bonifiche, riconduzione ad accettabilità ambientale e prevenzionistica, prosecuzione della produzione e salvaguardia dell’occupazione.

GIP-Taranto-ord.-8-febbraio-2019

Alle vicende oggetto di successivo intervento dei pubblici ministeri e del giudice remittente sono risultati applicabili due istituti speciali introdotti ad ILVAM:

la norma che consente all’Ilva di Taranto la prosecuzione dell’attività produttiva pur in presenza di sequestro penale (art. 3, comma 3, decreto legge 207/2012 convertito con modifiche dalla legge 231/2012, art. 2, comma 5, decreto legge 1/2015 convertito con modifiche dalla legge 20/2015 e art. 1, comma 8, decreto legge 191/2015 convertito con modifiche dalla legge 13/2016);

la norma che esenta da responsabilità penale i soggetti gestori dell’Ilva di Taranto e i loro delegati per le condotte poste in essere in attuazione del Piano ambientale approvato con DPCM 14 marzo 2014, cioè il Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria previsto dal decreto legge 4 giugno 2013, n. 61 sul commissariamento dell’Ilva, ove è riportato anche l’esito dei procedimenti di riesame e modifiche dell’AIA del 26 ottobre 2012 (art. 2, comma 6, dl 1/2015, convertito dalla legge n. 20/2015, come da ultimo modificato dal dl n. 244/2016, convertito con modifiche dalla legge 19/2017): «non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario, dell’affittuario o acquirente e dei soggetti da questi funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro».

Si è discusso della natura di quest’ultimo istituto speciale, definito da taluni “immunità” da altri inquadrato come scriminante. La “speciale irragionevolezza” dell’istituto, laddove di scriminante si tratti, è scolpita in un passaggio dell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale: “Se le condotte non punibili sono quelle in attuazione del Piano ambientale, perché rappresentano ex lege,con presunzione non superabile da valutazione di segno contrario, “adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”, perché prevedere una scriminante ad hoc, quando sarebbe stato sufficiente, per l’autore del fatto, invocare la esimente comune prevista dall’art. 51 cp (esercizio del diritto)?”.

La violazione del principio costituzionale di uguaglianza ipotizzata dal remittente è declinata sotto il profilo della «non ragionevolezza – non razionalità» della disparità di trattamento che la norma censurata istituisce: il giudice mostra di aderire all’orientamento evolutivo secondo il quale la ragionevolezza «sembra esigere, più nettamente, “razionalità” nelle scelte legislative, confondendosi, più propriamente, con la più generale esigenza di coerenza dell’ordinamento giuridico».

La Corte costituzionale si era espressa sul «caso Ilva» con la sentenza n. 85 del 9 aprile-9 maggio 2013, il cui nucleo argomentativo centrale si rifaceva al valore del bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, senza «pretese di assolutezza» per alcuno di essi (in specie: il diritto alla salute); con l’avvertenza che «il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale».

Ma la Corte aveva riconosciuto espressamente che quella disciplina era stata imposta da una situazione “grave ed eccezionale” e solo la temporaneità delle misure adottate poteva farle ritenere compatibili con i principi costituzionali, in quanto circoscritte entro un orizzonte temporale limitato, di trentasei mesi decorrenti dal 3 dicembre 2012.

Tuttavia una serie di interventi normativi successivi ha spostato continuamente in avanti quel termine e, correlativamente, l’esonero da responsabilità per l’attività inquinante derivante dalla non ancora completata messa a norma degli impianti, fino a fissarlo al 23 agosto 2023: secondo il remittente «il pregiudizio ai valori costituzionali tutelati dagli artt. 32, 35 e 41 della Costituzione appare dunque palese, per l’irragionevole sbilanciamento che quella dilatazione temporale ha provocato».

Ulteriori parametri costituzionali vengono individuati negli articoli 24 e 112 della Costituzione, per il contrasto con il dovere dell’ordinamento di reprimere e prevenire reati attraverso l’azione dei pubblici ministeri e l’eventuale sollecitazione del privato leso nei suoi diritti; e la lesione di diritti processuali e, dunque, del diritto alla tutela giurisdizionale. Le norme censurate si porrebbero altresì in contrasto con l’art. 117 della Costituzione, violando gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con l’adesione alla Convenzione europea sui diritti umani: con particolare riferimento agli artt. 2il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge»), 8ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, nel proprio domicilio») e 13ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale») della Convenzione.

Va ricordato che la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata il 24 gennaio 2019, con la sentenza Cordella e altri c. Italia ,  dichiarando la sussistenza della violazione del diritto dei ricorrenti a un ambiente salubre (art. 8) in quanto abitanti nelle aree prossime agli impianti Ilva, soggette a grave inquinamento ambientale: i numerosi ricorrenti lamentavano l’inerzia dello Stato nell’impedire la lesione dei diritti fondamentali dei cittadini, a fronte delle immissioni nocive provenienti dall’impianto e all’impatto di esse sulla salute e sull’ambiente. Ritenendo che lo Stato italiano non abbia adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute dei cittadini, la Corte ha riconosciuto un’equa riparazione e raccomandato che alla necessità di quelle misure si faccia fronte entro breve termine, anche mediante la definitiva implementazione del piano nazionale ambientale fino ad ora non compiutamente attuato; la Corte peraltro non ha fornito raccomandazioni dettagliate a contenuto prescrittivo – richieste dai ricorrenti – rinviandone la competenza ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione (§ 181 della sentenza).

La stessa sentenza della Cedu, pur non avendo ad oggetto diretto gli istituti specialicensurati nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si esprime con chiarezza sull’incongruenza di quella che viene definita «un’estrema lentezza» (§ 168): «Les mesures préconisées à partir de 2012 dans le cadre de l’AIA afin d’améliorer l’impact environnemental de l’usine n’ont finalement pas été réalisées; cette défaillance a été du reste à l’origine d’une procédure d’infraction devant les instances de l’Union européenne. Par ailleurs, la réalisation du plan environnemental approuvé en 2014 a été reportée au mois d’août 2023 […] La procédure permettant d’atteindre les objectifs d’assainissement poursuivis se révèle donc d’une lenteur extrême».

L’ordinanza del giudice per le indagini preliminari di Taranto risulta coerente con lo sviluppo della giurisprudenza costituzionale avutosi con la sentenza n. 58 del 7 febbraio-23 marzo 2018 , che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (abrogato e riprodotto in maniera identica dal dl 83 del 2015) che consentiva la prosecuzione dell’attività dell’Ilva nonostante il provvedimento di sequestro preventivo dell’autorità giudiziaria. La Corte ha rilevato che nella disciplina censurata mancava del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori; che durante la pendenza del termine era consentita la prosecuzione dell’attività d’impresa senza soluzione di continuità, sicché anche gli impianti sottoposti a sequestro preventivo potevano continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano; che nella formazione del piano non era prevista alcuna partecipazione di autorità pubbliche, informate solo successivamente nella forma di una mera comunicazione-notizia.

Ha affermato quindi la Corte che «considerate queste caratteristiche della norma censurata, appare chiaro che, a differenza di quanto avvenuto nel 2012, il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.)».

In attesa di sapere se la nuova decisione della Corte costituzionale si porrà in linea di continuità con l’evoluzione già segnata dalla sentenza n. 58/2018, è possibile dare una lettura sistematica – e critica − degli interventi legislativi sul caso Ilva. Se si vuole attribuire una logica comune alla legislazione Ilva, essa è stata sinora quella del «consentire la prosecuzione dell’attività» riducendo i vincoli esterni che avrebbero potuto rendere più complessa la gestione in corso e problematica la vendita del complesso aziendale.

La legislazione ha agito su tre fronti: l’introduzione di norme speciali per l’amministrazione straordinaria di Ilva S.p.a. e di altre società del gruppo, rispetto alla disciplina contenuta nel dl n. 347/2003 (convertito in legge n. 39/2004), già derogatoria della procedura ordinaria di cui al d.lgs n. 270/1999; la concessione di finanziamenti e interventi di sostegno (che la Commissione europea ha ritenuto in parte produttivi per Ilva di vantaggio indebito in violazione delle norme UE sugli aiuti di Stato) e l’utilizzo − disciplinato dal dl n. 91/2017 − di somme sottoposte a sequestro o oggetto di confisca nell’ambito o all’esito dei procedimenti penali pendenti nei confronti di soggetti coinvolti a vario titolo nell’amministrazione e gestione dello stabilimento Ilva di Taranto; la definizione del rapporto con la giurisdizione che si è tradotta, come si è visto, negli istituti speciali sulla prosecuzione dell’attività nonostante il sequestro e sull’esclusione della responsabilità penale o amministrativa dei gestori.

Mentre il primo istituto speciale è direttamente connotato dalla sua natura di strumento per rendere inefficace un provvedimento giurisdizionale, la formulazione dell’art. 2, comma 6, del decreto legge n. 1/2015 ha dato luogo, come si è detto, a varie ipotesi di inquadramento dottrinale.

Appare coerente con il complesso delle norme sopra sinteticamente citate, e con la mens legislatoris che ne emerge, che si tratti – lo stesso giudice remittente dedica un passaggio esplicito a questa ipotesi − di una vera e propria «presunzione iuris et de iure di conformità a legge e liceità» delle condotte dei soggetti menzionati nel testo della norma, che secondo un giudizio ex ante del legislatore, costituirebbero adempimento delle «migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro».

Una presunzione assoluta che produce un effetto non differente da quello che si voleva con la norma sulla prosecuzione delle attività in pendenza di sequestro: l’effetto, cioè, di una vera e propria sospensione della giurisdizione, al cui vaglio si sottrae un oggetto centrale quale la valutazione della liceità delle condotte dei gestori degli impianti Ilva.

Si tratta di un approccio in definitiva meramente “difensivo, rispetto all’ordinario esercizio dei compiti di ciascun potere, declinato sotto forma di un’”emergenza perenne”: un ossimoro che la Corte costituzionale è chiamata a sciogliere. Ma, a prescindere alla decisione della Corte, sembra necessario rovesciare le priorità: dalla logica politica del difendersi dalla complessità a quella dell’accettare la sfida della sostenibilità, partendo, come sarebbe necessario, dal recupero dei ritardi nell’attuazione delle bonifiche .

Sono la credibilità e trasparenza dell’azione amministrativa che consentono di evitare l’intervento penale, non la riduzione della funzione legislativa alla produzione di leggi-provvedimento; e, per altro verso, la capacità del legislatore e dei decisori politici di supportare le loro decisioni con la necessaria competenza: la complessità di vicende come quella di Ilva non può essere affrontata da «un legislatore frettoloso e sciatto» né da una funzione di governo perplessa la cui navigazione sia affidata all’effetto sbandante del social network sentiment.

*magistrato collaboratore della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle ecomafie

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