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18 Aprile 2024 05:58
18 Aprile 2024 05:58

La forza di reagire

Genova è oggi una città che ha vissuto per decenni la frustrazione della crisi del porto e lo svuotamento progressivo dei suoi abitanti, una città ridimensionata. Eppure ha una forza morale intatta, in chi vive ancora lì come in chi se n’è andato, una grande speranza e voglia di guardare oltre, di reagire insieme. 

di Gaia Pianigiani

Poche ore dopo il crollo del viadotto del Polcevera a Genova, un mese fa, sulla città regnava un silenzio surreale. Finita la frenesia delle ambulanze, dei vigili del fuoco e dei soccorsi, il ponte Morandi tagliato in due rimaneva sospeso in aria, isolato dalla polizia che impediva l’accesso ad ogni possibile strada, autostrada o via secondaria che potesse condurre lì vicino.

Gli abitanti evacuati aspettavano di poter rientrare in casa per prendere i primi oggetti personali, parlavano tra loro, cercavano spiegazioni, increduli. In quel quartiere multi-etnico vivevano da sempre i figli dei ferrovieri per cui erano state costruite le case di via Porro e via Fillak, le coppie giovani in cerca di affitti abbordabili e lavoratori dominicani, cileni o albanesi venuti a Genova per avere una vita migliore. Nessuno alzava la voce, nessuno litigava, nessuna scena di panico.

Alcuni protestavano. Col passare delle ore cresceva la consapevolezza di ciò che era realmente accaduto e, lungo la fila ordinata di persone in attesa di rientrare in casa a prendere i propri effetti personali coi vigili del fuoco, c’era stupore misto ad un nervosismo soffocato. Una signora in particolare era molto preoccupata. Aveva lasciato il suo gatto, il compagno di una vita, in casa solo da ore, e si lamentava di dover stare lì ad aspettare per chissà quanto altro tempo. Non appena un pompiere le prestò attenzione e spiegò a tutti i problemi e i rischi, la signora si scusò immediatamente per essere stata aggressiva. “Sono un po’ stanca“, disse.

Vivere a Sampierdarena . In un’Italia dall’urlo così facile, Genova è stata composta e misurata nel dramma che l’ha colpita violentemente al cuore. Perché oltre alla tragedia delle vittime e delle loro famiglie, la città non ha solo perso una preziosissima via di comunicazione. Ha perso un luogo dell’orgoglio.

Nell’immaginario collettivo e in quello di molti giornalisti, vivere sotto un ponte costruito così vicino alle abitazioni doveva essere una cosa orrenda. Eppure gli abitanti non sembravano rammaricarsene. Una ragazza ventenne, cresciuta nelle case colorate di Sampierdarena, sorrise alla domanda di un collega giornalista che le chiedeva come mai vivesse lì. Lei aveva sempre sentito di vivere sotto un capolavoro dell’ingegneria degli Anni 60, non certo in un’anonima periferia. Questa è Genova, una città dallo spirito pragmatico e dall’orgoglio sconfinato.

Nel deserto urbano di metà agosto, non c’era un capannello di persone che non parlasse del crollo senza commuoversi. Si piangeva lo scempio delle vite umane perdute nelle attività di tutti i giorni, mentre erano alle prese con un trasloco, guidavano verso il traghetto che li avrebbe portati in vacanza o semplicemente si spostavano da Ponente a Levante per lavoro anche il 14 agosto, come chiunque in città aveva fatto migliaia di volte. E si piangeva un monumento della città che, pur nel suo essere al centro di polemiche continue, lavori incessanti e ingorghi di traffico perenni, era fieramente parte dello skyline di Genova.

La nostra Ground Zero . Prima che nazionale, per la lite furibonda che si è scatenata tra le istituzioni e con la Società Autostrade per l’Italia, il crollo del ponte Morandi è stato un lutto cittadino. Come ha detto il sindaco Marco Bucci poco dopo il crollo, il 14 agosto è stato l’11 settembre di Genova. Del World Trade Center è mancata solo la polvere delle macerie e dell’incendio. A Genova l’odore del cemento armato sbriciolatosi dalle tonnellate di impalcato, piloni, stralli e new jersey andati in pezzi, è stato subito tamponato dalla pioggia fitta di quella mattina. Ma è pressoché identico lo choc, il senso di impotenza di fronte ad una tragedia così immensa e imprevista, la ricerca di un colpevole tanto nel dibattito pubblico quanto nelle indagini della magistratura e dei tecnici. È simile il sito del crollo, presidiato dalle forze dell’ordine, così vasto e oltre ogni immaginazione. Da ogni angolo lo si guardi, dall’alto, dall’autostrada rimasta in piedi, dai ponti paralleli, pare impossibile che oltre 200 metri di cemento armato siano potuti crollare.

Il “ground zero” di Genova ci ricorda quanto siamo piccoli rispetto alle leggi della fisica e quanto ciò che ci sembra così solido ed eterno possa crollare all’improvviso. Era la stessa impressione che si aveva guardando la devastazione delle Torri Gemelle. Per motivi molto diversi, quella che era un’opera ingegneristica di pregio era diventata una trappola mortale.

Genova è oggi una città che ha vissuto per decenni la frustrazione della crisi del porto e lo svuotamento progressivo dei suoi abitanti, una città ridimensionata. Eppure ha una forza morale intatta, in chi vive ancora lì come in chi se n’è andato, una grande speranza e voglia di guardare oltre, di reagire insieme.

La domanda che mi sento rivolgere più spesso è: “Noi ce la facciamo, ma tu la scrivi una buona notizia sulla città?“.

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