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29 Marzo 2024 12:06
29 Marzo 2024 12:06

I dieci grammi del ragazzo di Lavagna e i miliardi della mafia

Il suicidio è un gesto privato, ma le responsabilità sono pubbliche

di Roberto Saviano

HA SEDICI anni e all’uscita da scuola viene perquisito dalla Guardia di Finanza. Ha addosso dieci grammi di hashish, i classici cinquanta euro di fumo che comprano i ragazzi. Avrebbe ammesso di averne ancora un po’ a casa. Quindi la Guardia di Finanza perquisisce la sua cameretta ed effettivamente trova, dove lui stesso aveva indicato, altro fumo. La cronaca ci dice che il ragazzo, durante la perquisizione o mentre uno dei finanzieri stava parlando con sua madre, si alza dal divano dove era seduto, apre la finestra e si butta giù, dal terzo piano. Viene trasportato in elicottero in ospedale, ma non ce la fa. Muore.

I fatti sono questi. Forse è utile localizzare l’evento per un solo dato: Lavagna è un paese di poche migliaia di abitanti, in provincia di Genova. A Lavagna ci si conosce un po’ tutti e magari il peso di ciò che la comunità pensa di te ancora si sente forte, fortissimo. Posso ipotizzare che in una città più grande, dove basta cambiare quartiere per diventare perfetti sconosciuti, si cresca in fondo con la sensazione che non esistano marchi a fuoco che ti rovinano la vita per sempre e che la rovinano a chi ti sta vicino.

Questi i fatti a cui non mi va di aggiungere dettagli emotivi. Inutile parlare di quelli che noi presumiamo essere i rapporti con la famiglia: questo non è un romanzo e quindi guardiamoci dall’interpretare i pensieri del ragazzo e dal riempire il vuoto di parole che crediamo siano state pronunciate ma che non hanno, ai fini della nostra valutazione, alcun peso. Concentriamoci, invece, sulle responsabilità politiche che si celano dietro un gesto privato. Concentriamoci sui motivi che portano i media a interessarsi di droga solo quando ci sono sequestri enormi, arresti eccellenti o morti tragiche come questa. Interroghiamoci su cosa uno Stato paternalista possa davvero fare per salvare vite. Concentriamoci sul fallimento della proibizione in materia di stupefacenti, in ogni luogo e in ogni tempo.

E mentre scrivo ho davanti agli occhi il corpo martoriato di Stefano Cucchi e in mente i motivi che hanno condotto al suo arresto. Il 15 ottobre 2009, Cucchi viene fermato dai Carabinieri perché era stato visto cedere droga in cambio di soldi. Lo portano in caserma e addosso gli trovano 21 grammi di hashish, divisi in 12 confezioni, e tre dosi di cocaina. Durante la custodia cautelare accade quello su cui da anni si cerca di fare chiarezza.

Perché ho citato Cucchi? Per un motivo preciso. Stefano muore dopo una settimana, mentre è affidato allo Stato Italiano. Stefano muore perché trattato da tossico, da spacciatore, non mancano al riguardo commenti agghiaccianti. Ricordo Giovanardi che disse che tra spacciatori e carabinieri sceglieva i carabinieri, di fatto fotografando un clima da guerra civile tanto assurdo quanto ingiustificato. E poi il “mi fai schifo” di Salvini rivolto a Ilaria Cucchi che aveva deciso, coraggiosamente, di mostrare le immagini terribili del corpo martoriato di suo fratello. Ma cosa ha raccontato, al nostro Paese, la morte di Stefano Cucchi? Che se sei uno spacciatore e un tossico meriti di morire. E che se ti trovano in possesso di droga, sei una merda e ti sei rovinato la vita. La tua e quella della tua famiglia. Non c’è appello. Non c’è possibilità di riscatto.

È questo che hanno raccontato la morte di Federico Aldrovandi e poi quella di Stefano Cucchi. Ecco perché oggi, di nuovo e con urgenza, dobbiamo riflettere sulla necessità di avviare un dibattito parlamentare serio sulla legalizzazione della cannabis e lo facciamo ancora una volta sul corpo di un altro ragazzo la cui vicenda solo apparentemente non c’entra nulla con le altre che ho citato. In realtà con loro ha in comune il contesto, un contesto che condanna senza processo. Ma ci pensate mai? Solo alla presenza di un corpo morto, ci si distrae per un attimo dalla politica fatta di messaggi mandati via chat intercettati, interpretati, smentiti e per qualche ora si raccolgono idee e dichiarazioni per dirci quanto anche sulla legalizzazione delle droghe l’Italia sia in colpevole ritardo. Poi si seppellisce il corpo e tutto torna alla normalità.

E intanto stupisce l’impiego di una tale solerzia militare su un sedicenne, è ovvio che si tratta di procedure, ma non ci si può esimere dal constatare la spropositata attenzione in questo caso su un dettaglio, rispetto al problema. E anche qui si tratta di valutazione politica e non militare. Di valutazioni generali che prescindono dalle responsabilità dei singoli. Che prescindono dal numero di finanzieri che hanno effettuato la perquisizione, ma hanno a che fare con una logica doppia che non può non saltare all’occhio. Da dove arriva il fumo che si spaccia a Lavagna? Da quelle piazze di spaccio a cielo aperto delle periferie romane o napoletane dove le forze dell’ordine hanno difficoltà a effettuare i seppur minimi controlli. E le scuole di mezza Italia, oggi come ieri, sono piazze di spaccio dove arriva qualunque tipo di droga.

Allora mi domando: ha più senso tracciare il fumo prima che arrivi nelle mani dei sedicenni o ha più senso punire il sedicenne consumatore? E ancora: è più accettabile che un sedicenne possa acquistare fumo in un coffee shop o da spacciatori che hanno anche altro da vendere e soprattutto hanno a che fare con un sottobosco criminale dal quale sarebbe consigliabile tenersi alla larga? Il fumo che si spaccia davanti alle scuole, nelle discoteche, negli stadi e ovunque ci siano ragazzi è fornito dai cartelli criminali. Il problema sono loro o sono gli studenti che fumano? Si dirà: ma se non parti dal piccolo come arrivi al grande? Questo non è assolutamente vero, perché il rischio è che si parta dal piccolo per fare gran numero di fermi e di perquisizioni, perché arrivare alla gestione delle basi è molto complicato.

Si parte dal piccolo spacciatore per rimanere al piccolo spacciatore o al consumatore. Per smantellare piazze di spaccio si rischia di lavorare a vuoto per mesi. E invece ci vogliono fatti concreti, bisogna fare numero, fermi, droga perquisita, grammi su grammi da comunicare nei dati che a fine anno verranno pubblicati affinché l’opinione pubblica si convinca che le forze dell’ordine fanno il loro lavoro.

Quando Patrizia Moretti e Ilaria Cucchi hanno avuto il coraggio di mostrare le immagini dei volti tumefatti di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi, io ho sentito verso di loro enorme gratitudine. Lo hanno fatto, certo, per un figlio, per un fratello, morti in circostanze odiose, ma lo hanno fatto anche perché sapevano che i diritti si ottengono utilizzando corpi, corpi che diventano campi di battaglia. Oggi però mi assale lo sconforto nel constatare che il corpo morto, quello senza vita (che sia il corpo del piccolo Aylan trovato esanime sulla costa turca, quello di Federico o quello di Stefano) ci indigna, ci fa incazzare, rabbrividire, commuovere, ma ci restituisce anche la tristissima consapevolezza che ormai più nulla è dato fare. Che oltre la morte non c’è più niente. Che ogni nostro gesto, ogni nostra azione è ormai vana. La nostra distrazione è quindi giustificata, naturale conseguenza, quasi ovvia, scontata, dovuta. Normale. Chi si occupa di mafie questo lo sa bene: non si spiegherebbe altrimenti l’indifferenza ai morti in terra di camorra, morti giovani, minorenni, morti innocenti, morti colpevoli.

E penso a Marco Pannella e all’intuizione che ha avuto, intuizione geniale, da politico di razza, sulle battaglie politiche, che andavano necessariamente condotte utilizzando il corpo vivo, il suo corpo vivo. Gli scioperi della fame per i detenuti e la distribuzione di marijuana e cannabis. Oggi prendiamo la sua eredità perché è sui corpi dei vivi che vanno combattute e vinte le battaglie. Dei corpi morti ci dimentichiamo in poco tempo. È il suo metodo che dobbiamo utilizzare, un metodo analitico che dal particolare va subito all’universale e non indugia sui turbamenti intimi dell’animo umano, ma punta dritto alle responsabilità collettive e su quello che c’è da fare.

Qui, dunque, non è minimamente in discussione l’incapacità che un sedicenne ha, per inesperienza, di relativizzare ciò che gli accade, ma la necessità di porre seriamente le basi perché gli innocenti, ma anche i colpevoli, non vengano condannati a morte dalla pubblica morale. E se il decesso di Stefano Cucchi è stato procurato, il ragazzo di Lavagna ha anticipato il giudizio sociale e, in una manciata di minuti, si è autoprocessato, si è trovato colpevole, togliendo a chiunque altro la possibilità di giudicarlo. Non giriamoci troppo attorno, lui è l’ennesima vittima di un sistema criminogeno, di un sistema che non funziona per calcolo, inerzia, incompetenza, comodità.

E rendiamoci conto che uno Stato paternalista, che pretende di preservare i suoi figli vietando, è uno Stato destinato a fare un numero incalcolabile di vittime e che regala alle organizzazioni criminali un mercato stimato tra 4 e 9 miliardi di euro all’anno. Questo è il valore della cannabis consumata.

*commento tratto dal quotidiano La Repubblica
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